BUSSOLA – Mathias Enard

BUSSOLA, di Mathias Enard (e/o – marzo 2022)

La ricerca dell’identità rappresenta un aspetto fondamentale nell’essenza di ogni uomo. Esso infatti, solo ottenendo a definire sé stesso, potrà riuscire ad affrontare le numerose situazioni e gli ostacoli che la complessa realtà quotidianamente gli presenta: di fronte ad un contesto ricco di opportunità, punti di vista e differenti culture, può risultare facile smarrirsi, e indagare alla ricerca di un’alterità che rappresenti il proprio vero sé.

Ma alterità e identità, sono due concetti correlati che si postulano e si giustificano a vicenda, e che da un punto di vista antropologico formano il nostro essere, ma è anche vero che, grazie al rapporto con l’altro e con il nostro diverso modo di concepire la realtà che ogni soggetto riesce ad identificarsi tale. Quindi, lo studio di sé stesso, dei propri elementi, della propria verità nell’altro, è forse un’esigenza che l’essere deve svelare attraverso la ricerca e lo studio delle culture che apparentemente non gli appartengono, ma inevitabilmente scopre che di queste esso ne fa parte, tanto quanto il suo pensiero non potrà mai identificarle, svelando legami tanto forti, quanto inimmaginabili.

Perdersi tra le rovine che affiorano nella sabbia, nelle distese di un deserto infinito; affondare in un territorio onirico dove sfuggire inesorabilmente a sé stessi. È questo l’Oriente, terra che determina una condizione umana, una realtà affidata all’oblio, alle sensazioni vaporose dei fumi densi di una pipa d’oppio.

Presupposto stupefacente, esigenza che diventa ricerca, poesia, musica, l’attrazione di una bellezza che penetra ogni essere vivente; canto e richiamo di una terra lambita dal sole che illumina e che attrae ogni spirito vagante, smarrito nelle tenebre di una notte occidentale.

Cercare tra i granelli di sabbia, nell’ostilità di una cultura che custodisce il dolore di conflitti politico religiosi, in una solitudine desertica, nel silenzio di chi peregrina nell’illusione del miraggio, trovando sé stesso nella luce del sole che all’alba rischiara i propri tratti somatici. Richiamo di una preghiera, che il canto di un muezzin, invoca dall’alto di un minareto.

Queste le scene che Mathias Enard ci descrive, tra le vie di Damasco e le piazze di Bagdad; tra i profumi delle spezie e le immagini distorte dagli effetti sedativi dell’oppio, tra le melodie di uno liuto e i ritmi delle percussioni danzanti, da una carovana sempre in viaggio alla ricerca della propria esistenza.

Ma prima di un sole che nasce ad est, è la notte la protagonista di una oscura e tormentata vicenda, quella che riporta alla mente di Franz Ritter i ricordi di un amore forse mai corrisposto, ma che lascia le impronte in quel deserto che non sa cancellare le sue tracce e che le vede ripercorrere in una notte insonne.

Notte occidentale che lascia scorrere i rammenti di un’alba che sorge ad est, sacrificio di chi è costretto a raccontarsi e a raccontare un Oriente di quelle immagini di Le mille e una notte, di una Shahrazad alla corte del re Shahriyar, tradito dall’infedeltà coniugale, notte di chi come Proust Alla Ricerca del tempo perduto rievoca le malinconie di quel passato smarrito. Notte infinita, come il Raskolnikov dostoevskijano che medita nella notte custodendo il suo delitto.

Notte priva di una profondità che fa riaffiorare i ricordi, gli amori, i rimorsi e la poesia di una vita vissuta all’ombra di quelle palme di una terra attraente, di un poema di Badr Shakira al-Sayyab, poeta che rivive il suo destino avviluppato negli enigmatici versi di ”Il canto della pioggia”, versi che rompono gli argini tradizionali di una cultura islamica, e che racchiudono in essi un respiro che giunge da lontane terre.

Pioggia che canta di quella vita che intreccia il suo fato con la morte e che si abbandona ad essa.

Infinita è la via che conduce alla luce, come eterna è la sofferenza che unisce la vita alla morte. Condanna di un prigioniero incatenato alla sua sonnolenza. Torpore che fugge e rincorre il suo amaro destino, tra le tenebre del buio e la luce di un nuovo giorno. Castigo di chi tenta di evitarla e di chi non fa a meno di cercarla, capirla e venerarla, trarne da essa il significato intrinseco della stessa esistenza, prima che questo abbia comunque rilasciato completamente l’essenza di quella morte che vi risiede in unione con la sua stessa vita.

Oscurità di una notte viennese, immersi in una anomala malattia, dove sensazioni offuscate ritornano alle immagini di un continuo smarrirsi tra i ricordi di un amore errante, che non trova pace né la giusta via, pur seguendo le indicazioni ingannevoli di una Bussola che si oppone al Nord, ma che distingue beffardamente un Est incredibile, straordinario.

Porta di accesso che conduce in un mondo che ispirò personaggi illustri, ricercatori, archeologi e musicisti, poeti e semplici avventurieri. Sognatori di un sapere alla continua ricerca di un Dio che forse non ha mai trovato e che vede in Abramo l’unico anello di congiunzione tra Cristiani, Semiti e Musulmani.

Uomini visionari, invasi dal mal di vivere e da una solitudine infinita, intrisa della loro istruzione, espressione di una vita che abbraccia spietatamente la morte e l’erotismo di un piacere smisurato, nell’orrore di un martirio che sfuggire a sé stessi e subire il supplizio di un messaggio d’amore.

Erudita la prosa dell’autore che fa riferimento ad artisti e poeti europei della prima metà del XIX secolo i quali si inseguono tra Europa, Turchia, Siria, Persia e Iran. Goethe, Hugo, Honoré de Balzac, Flaubert e l’austriaco Joseph von Hammer-Purgstall che introdusse un testo in lingua araba in un’opera destinata al pubblico francese, Nerval, Rimbaud, Pessoa. Tante le citazioni e i riferimenti storico culturali, intrisi di quell’atmosfera sognante, dove chi l’attraversa si fa penetrare e irrimediabilmente affascinare.

Tante le verità raccolte e tante quelle celate dietro un velo che nasconde il volto di una purezza che appartiene ad una identità femminea di un chiarore puro, corpo latteo celato alla luce e svelato alle tenebre delle loro vesti nere, nascosto dietro le sembianze di identità apparente. Occhi che intravedono, nel candore di quel corpo, il mistero della purezza e non l’indecenza della morte, l’immoralità della punizione alla quale essa spesso è costretta a ricorrere.

Giunti alla fine del nostro viaggio, quel che rimane è solo il ricordo vanescente di una realtà rarefatta che si dissolve nella mente dilatando ogni pensiero, come di chi rammenta immagini attraverso gli allucinogeni fumi di quella pipa d’oppio e trova la consolazione di una intensa armonia, precipitando in uno stato di ambiguità tra il sonno e l’incoscienza eterna.

Buona lettura.

Recensione di Giuseppe Carucci

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