L’IDENTITÀ, di Milan Kundera

L’IDENTITÀ, di Milan Kundera

L’ho letto più di un mese fa. E non avevo scritto nulla in merito. Sapevo solo che mi era piaciuto da morire e avevo scritto ad una persona: “Sto leggendo l’identità di Kundera. Meraviglia”.

Non ho aggiunto altro.

L’ho finito in due o tre spezzoni serali, si consuma in poche ore al massimo. Scorre, come scorre lungo la gola un bicchiere di buon vino, che attraversa il petto fino allo stomaco e, lì, brucia su uno sfondo di solitudine, buona e amara insieme.

Ieri sera ero a letto e, senza apparente motivo alcuno, mi è tornato in mente. E con lui le parole di quella stessa persona, a cui ne avevo parlato e con cui discorro di libri, di vizi, di virtù e velleità, che ieri mi confidava di aver ricordato di aver letto un libro solo perché lo aveva appuntato su una lista.

Io, invece, “L’identità” di Kundera non l’ho dimenticato, con i suoi contenuti e la sua potenza narrativa.

È riemerso tra i solchi della mia cognizione dopo tempo e solo ieri sera ho avuto l’insight: questo libro parla di due grandi drammi ossia il non riconoscere più sé stessi nel corso del nostro evolversi identitario e il non riconoscere l’altro che amiamo nel fluire della relazione costruita con lui/lei, apparentemente perfetta.

Può arrivare un momento del processo relazionare in cui potrebbe capitare di perdere sé stessi così come può arrivare un momento in cui non si riconosce più “l’altro da noi” a cui siamo fedelmente uniti, sebbene permanga sullo sfondo del nostro turbamento la consapevolezza di continuare ad amarlo pienamente. E questo Kundera lo sa bene e lo scrive, come solo lui sa fare, letterato delle relazioni umane.

Questo libro dispiega una concatenazione di pensieri, supposizioni e agiti, tutti dolorosi e umanamente possibili nei singoli e nelle coppie che si amano immensamente.

Ne descrive gli affanni e le angosce con ritmi sempre più incalzanti, grande pathos e capacità di scrittura sublime, nello stile Kundera.

Non c’è una trama dunque, c’è piuttosto una dinamica ben sviscerata, poetica e penosa allo stesso tempo.

E c’è una radice cruciale su cui essa si innesta e si sviluppa: la mancanza di un dialogo profondo intrapersonale e interpersonale che si esplica nel non sapere ammettere a sé stessi di essersi perduti, affrontando spavaldamente l’oblio, e nel non sapere condividerlo coraggiosamente con la persona che amiamo.

Kundera percorre a parole scritte, esplorando i pensieri e i vissuti dei due affascinanti protagonisti,Chantal e Jean-Marc, il disastro generato da questa mancanza di condivisione onesta e necessaria in una coppia che vuole sopravvivere alle insidie del tempo che scorre, contro due nemici ostili e universalmente comuni: l’invecchiamento e l’abitudine. Tale disastro ha il volto di patetici aggiustamenti, timidi tentativi di far qualcosa per sé stessi e per l’altro, sempre più intricati, vani e sbagliati perché basati su proiezioni e interpretazioni che logorano e annientano i singoli nei loro reali bisogni e la coppia nella sua sana evoluzione.

Alla fine, il genio di Kundera gioca con il lettore, come solo lui sa fare, oscillando tra il reale e l’onirico, in un racconto carico di simbolismi e archetipi che sono sostanza dell’umano e dell’essere (insostenibilmente leggero).

Un piccolo libro perfetto, da far decantare come il vino in un bicchiere, da sorseggiare e lasciare scorrere onesto nelle vene perché, a berlo, non genera amnesia (difficile che lo dimenticherò) ma discernimento, nutrimento e vigore.

È bene specificare che non è per tutti. (C’è chi preferisce la birra, dopotutto. Buona pure, ma meno sanguigna e passionale).

Alla salute🍷, allora.

PS c’è un passaggio del vissuto di Chantal che non si dimentica davvero, che è fortissimo nell’essere detto a voce alta, e non taciuto. Non tutti i lettori, forse, digeriranno e apprezzeranno. È disarmante, ma onesto.

Recensione di Marta Onirici

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